1950 – Da giovane era stato attraente, il sor Oreste. Gli occhi cristallini, i boccoli biondi, un corpo un po’ pingue ma agile. Il minore di tre maschi, da bambino nei saloni del suo antico palazzo con i fratelli si arrampicava, si nascondeva dietro le tende, nei vecchi mobili tarlati della cucina in mezzo ai pentoloni di rame, facendo disperare le servette che se lo ritrovavano davanti all’improvviso. Non giocavano per strada con “i mammocci”, erano nobili e stavano tra loro. A vent’anni sposò Ludovica, una contessina delicata e docile. Rimasero a palazzo dove ebbero una vita matrimoniale felice ma lei morì nel fiore degli anni, senza un motivo apparente. A differenza dei fratelli che si erano laureati e se n’erano andati a Roma, uno avvocato, l’altro farmacista, era rimasto nel palazzo nel centro del paese, viveva una vita “ritirata”, aveva imparato dal padre ad amministrare i beni, le terre. Mai si risposò, perché con la vedovanza, i “cunsuli” si erano fatti abbondanti ed era diventato pesante, la pancia enorme, la pappagorgia. Corpulento, temeva di vivere una sessualità difficile, di fare figli, si bastava da solo. Aveva tre nipoti e il nome della famiglia si era rinnovato, così fece il vedovo inconsolabile. Fare le scale gli era faticoso, visse nel piano nobile con la vecchia madre che suonava il pianoforte dalla mattina alla sera. Passarono gli anni, diventò anziano e rimase solo con un unico palafreniere che faceva tutto, tranne il pane. Le commarelle del vicolo conoscevano bene il sor Oreste. Nelle prime ore del pomeriggio, con i mariti di ritorno dalla campagna le donne si chiamavano sulla porta per “sdiuna’”: “Commare ‘Ntona! Presteme na cica d’oglio ca so’ fatta la menestra rappracacurnuchi, ma n’è bbona se ‘n ci micchi l’oglio!”.“Nese’, i’ gli so’ scorto ieri. Oggi a maritemo ci faccio trua’ du maccarugni cugli sugo. L’oglio gni tengo, prova a chiede a commare Nicia”. “Ohi commare Nicia, ca tieni na mmisura d’oglio? Addapo’ te lo ridongo!” “ Me dispiace cara Iole, ma gni tengo, lo so’ scorto ieriaddomano”. “Cetto ‘Ndrina! Peffavore micchi na cica d’oglio aglio bicchiere ca se torna maritemo nun lo tengo pe la menestra e quiglio se ‘nfresca!” .“Ohi Iole, me sa ca douemo i’ n’atra uota dal sor Oreste perché non ne tengo no goccio mango i!”.”Ma già?!”. Le donne si radunarono tutte per il vicolo, confabulando e decidendo “a chi toccava”. “Uoi tocca a ti, Iole, è inutile ca fai la cicia, l’atra uota c’ha ita ‘Ndrina e prima angora ci so ita ì!” “Eh uabbe’ ca sarà mai? Ci uanco! Mica tengo paura”. Prese il fiasco, lo mise nel “manicuto” e arrivò al palazzo del sor Oreste. Iole s’attaccò al batacchio del grande portone e lo battè a lungo perché il sor Oreste s’era fatto un po’ sordo. Ormai aveva ottant’anni suonati e ci mise un bel po’ a scendere lo scalone e ad aprire. Il servo era ormai più vecchio di lui. I cardini cigolarono, lamentandosi. “Oh Iole, vuoi che ti riempa il fiasco?” “Grazie sor Oreste, agli uicolo auemo scorto l’oglio” “Vieni figlia benedetta! Ma sempre all’ultimo momento ve ne ricordate? Ma potevi venire prima”. Scesero per una scaletta vicino al grande portone, per la cantina. Nelle grandi anfore di terracotta il sor Oreste conservava centinaia di litri di ottimo olio scaturito dalle sue terre di Cori, di Sonnino, di Sezze, di Maenza, di Velletri. Prese il fiasco e, con un mestolo, lesto lo riempì. “Sor Ore’, tu li sai, i bocchi gni tengo!”. Il vecchio strinse a se’ il fiasco, si sedette sulla seggiola accanto a una botte immensa di vino, riempì un bicchierozzo aprendo il rubinetto di legno e le disse solo: “Va be’, tu lo sai qual è il patto: famme vede”. Con un po’ di vergogna Iole si aprì il corpetto dal quale uscirono due sisarelle bianche bianche, piccole, un po’ cascanti come quelle delle caprette. Gli mostrò l’ombelico, buio e profondo, in ultimo si tirò su le “cusce” e gli mostrò dove il sole non aveva mai battuto. La pelle era fresca e candida. Sor Oreste era contento, le disse: “Sei un po’ neccia, ma sei caruccia. Tuo marito non ti merita, Iole” e le consegnò il fiasco. “Esso! E che ce uole! Facemo na mmisura pu du, accusì stamo bene ca dì”. “Conviene ca iemo più vote, ma se chiedemo na cugnitella, come avemo fatto a Natale, quiglio ammaniccia a tutte le uie e a me non me sta beno! Uabbe uabbe’ ca so’ ddodici litri e durano no sacco de tempo. Ma po’ scorteno puro. Se guarda e zitto ce stongo ma nun me piace quanno mette le mani ‘ncima alle uirgogne me’! Apperciò non fate rompe ‘sto fiasco zeco ca i, pe’ na cugnitella d’oglio, ì nun me faccio tocca’ più”. ”Ma è ‘nnocuo!” “Mbe’ sarà puro ‘nnocuo e ‘nnocente, ma è na cica satiro, sor Oreste, sa ca quanno scorta l’oglio nu duemo i’ da isso e approfitta, quiglio coso zuzzo! I la cugnitella i’ n’ ce la chiedo più, meglio no litro solo”. Si trovarono tutte d’accordo. La “cugnitella” non l’avrebbero più chiesta, piuttosto meglio andare ogni settimana giù nella cantina col fiasco, così erano contenti tutti: i mariti che mangiavano saporito, sor Oreste che si rifaceva gli occhi e teneva le mani a posto, e le signore che anche quel giorno poterono aggiustare abbondantemente l’insalata con aceto, sale e olio del nobile compaesano.
Meglio i’fiasco ca ‘na cugnitella…
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