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La Conchiglia Rosa

by Lucia Fusco

L’ultima volta che lo vidi fu vent’anni fa, arrivò a casa mia senza avvisare, col suo più bel sorriso, l’immancabile chitarra vecchia, scorticata e una grande conchiglia rosa per me: “Buon compleanno, Lucia! Questa conchiglia mi ha parlato di te!”. La nostra comitiva si incontrava in casa di uno o dell’altro, e Cesare c’era poco, sempre tra un viaggio e un altro, da un continente a un oceano. Partiva con pochi soldi, sporadiche cartoline, poi tornava all’improvviso ed era la gioia. Quella sera era il mio compleanno, gli amici di sempre; felici di essere tutti riuniti cantammo per ore fino all’arrivo dei vigili. La conchiglia mi parla sempre, mi ha seguito nei traslochi, nel tempo. Mi dice la mia giovinezza, la sua.

Il padre impiegato alle Poste, sua mamma faticava ad arrivare a fine mese con un solo stipendio e quattro figli adolescenti, così lavava le scale nei condomini, cantava quieta mentre sciacquava il marmo. Una coppia onesta, senza grilli per la testa. Lui era il primogenito, a giugno aveva ottenuto un’ottima maturità, aveva sinceri amici, figli di persone oneste. Non c’erano soldi, ci si divertiva nelle festicciole in casa, passeggiate in centro, un gelato, un cinema di seconda o terza visione, al Gatto Randagio, a Piazza Navona, al Pantheon, duecento lire di pizza a taglio, una bomba a piazza San Giovanni di Dio dopo ore di pallonate al Gianicolo o a Villa Pamphili. Alto, moro, snello, occhi smeraldini di ardore e gioventù, era bellissimo e segretamente tutte noi ragazze eravamo innamorate di lui. Paracadutista nella Folgore, si dichiarava “fascio” ma la nostra comitiva romana era “mista”, c’erano fasci, compagni, democratici-cristiani, cattolici, studenti libanesi, estremisti di tutte le idee, atei, ignavi. Discutevamo della vita, della politica, di attualità, toni accesi ma mai violenti, volgari o aggressivi, facevamo i grandi, i “saputi”. Ragionavamo sul futuro con speranza e fiducia, pensando che la società stesse evolvendo, che la Cultura avrebbe portato lavoro, benessere, pace sociale, libertà, leggi più giuste. Avevamo sogni e illusioni, desideri segreti, pure egoisti. Primi amori, baci innocenti, la vita allacciata, per mano, scoprivamo le leggi eterne del desiderio.

Cesare era il più ribelle, sognava un mondo perfetto, uno Stato forte, centripeto, senza debolezze o schifezze, voleva “l’ordine”. Intanto andava scoprendo una sessualità disordinata, “strana”, altra, pulsioni pansessuali mal digerite dal gruppo, pur eterogeneo. Una visione “achillea” sull’amore, eroica, dove Patroclo e Briseide si confondevano in un unico afflato. Non tutti accettavano il suo sentire, la sua voglia di libertà. Intelligente e brillante a ventidue anni si laureò in Economia e Commercio e lavorò, astemio, nell’azienda di vini e liquori di un parente per aiutare la madre che, sempre più stanca, non cantava più.

Una brutta sera, uscendo dal lavoro, in una zona industriale buia vicino al raccordo anulare, insieme a un collega, subirono un’aggressione da tre estremisti, per motivi che non si sono mai chiariti. Il suo amico si prese una rasoiata in petto, lui si difese, torse il polso all’aggressore e gli rese la coltellata destinata a lui, lo ferì gravemente e finì a Regina Coeli, alla Longara per un bel po’. Subì la gabbia, umiliazioni e violenze. Il padre si indebitò e un avvocato dimostrò che Cesare si era difeso, che non aveva armi, che era vittima, non aggressore ed ebbe la libertà. Ma era cambiato dentro: taciturno, nervoso, ombroso. Lasciò il lavoro sicuro e partì per l’India, senza salutare. Visitò Lhasa, in Tibet, dove assistette al prodigio della levitazione dei monaci, imparò la lingua indiana e i sapori di quella cultura millenaria, assaggiò le prime droghe: funghi allucinogeni che lo lasciavano stordito ma scacciavano i pensieri fastidiosi e ritornanti. Qualche rara cartolina che firmava col nome, rare le parole, le descrizioni, i saluti. Dopo un anno da randagio si tagliò un piede su un pezzo di vetro e contrasse l’epatite virale. L’ospedale era terribile: una stanza piena di gente su pagliericci sporchi e bagni alla turca pieni di insetti, “fuggì”, comprò un biglietto all’aeroporto e tornò in Italia.

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