Home RubricheRacconto Nottata persa

Nottata persa

by Lucia Fusco

Anni Trenta – Nel pacco ostetrico mezzo litro di alcool, ovatta, garze e una saponetta profumata alla rosa. E ancora, sul comò mezzo litro d’olio necessario per pulire la pelle del bambino e soprattutto per evitare lacerazioni alla madre, perché si aprisse “la natura” evitando pericolose lacerazioni. Aveva preparato da giorni l’occorrente la “commare di San Giovanni”, la vicina Filomena.

La buona vicina, già dalla sera precedente, quando Quintina aveva perso le acque mentre rigovernava la cucina e accudiva le due piccole, Verdiana e Ines, di quattro e due anni, aveva sistemato diversi strati di paglia sul materasso e per terra, affinché il sangue del parto non sporcasse il giaciglio degli sposi. Era fatto di stoppie e foglie di tutero ma bisognava proteggere la dote, cioè la tela del sacco fatto di lino con le inziali ricamate Q L e le belle lenzuola che erano costati a Quintina mesi e e mesi di lavoro in mezzo ai campi.

Tutta la notte i dolori l’avevano fatta smaniare e poi la mattina sembrava che volessero distruggerle la schiena, le gambe, la vita. Li conosceva bene quei dolori… La levatrice, la sora Annetta l’aveva seguita per tutta la gravidanza ricevendo in cambio dei suoi servizi un po’ d’olio, uova, un sacchetto di fagioli… l’aveva sempre rassicurata, aveva visto nascere tanti bambini, figli di vicine e parenti. La levatrice, originaria di Roma, aveva sposato un sezzese, viveva nei vicoli del paese e aiutava le donne da Giulianello fino a Terracina, conosceva il “tempo” delle sue assistite, la si invocava, letteralmente, di voce in voce, di vicolo in vicolo, campagna campagna, e miracolosamente lei appariva al momento giusto. A volte la accompagnava il marito in bicicletta, altre volte qualche padre la portava a cavallo o a dorso d’asino ma soprattutto si spostava a piedi, un cesto per braccio, uno pieno di strumenti, l’altro vuoto. Arrivava negli antichi casali di gente benestante fino alle capanne degli umili ranocchiai nelle paludi.

“So’ arivata bella fe. Nun ave’ prescia ché mo’ lo famo nasce sto regazzinetto. E voi, signore, nun state là ‘mpalate sulla porta, portate de fora le creature che nun è spettacolo pe’ lloro. E fate ‘scì pure er cane e er gatto, che nun ci li vojo ‘n mezzo ai piedi.” Si lavò le mani, si sistemò un fazzoletto in testa, rimase in sottoveste, poi si accertò che il bambino fosse nella giusta posizione. Chiese acqua e panni caldi e puliti. Un secchio pieno d’acqua, lontano dagli occhi della madre. Chiese da mangiare e un fiasco di vino. Le donne in casa, Quintina in primis si meravigliarono: alle donne era negato il vino, ne conoscevano appena il sapore perché ne rubavano un sorso di nascosto, ci tenevano a essere “femmine oneste” e poi, visto l’effetto che faceva agli uomini! Ma alla levatrice tutto era concesso e le dettero tutto ciò che chiedeva. Mangiò e bevve fino a saziarsi poi si riavvicinò a Quintina che si lamentava e chiamava la mamma, la Madonna, tutti i santi e le anime del purgatorio.

Annetta sfregò i seni, la pancia, le gambe alla partoriente con l’olio caldo, fin nelle profondità più intime dove il dolore pulsava, pungeva, pugnalava. “Bella signora, il bambino sta pe’ nasce. Lui è pronto, se vedeno li capelli, è er terzo? Se vede che la strada è bbona! Fatte coraggio! Spigni, bella!” Con un fiotto di caldo liquido la creatura venne al mondo, rosa come un maialino da latte, sgusciando dalla natura con una spinta generosa. Tutto si era svolto perfettamente, purtroppo a volte il parto era pericoloso, si moriva per lacerazioni e lesioni profonde in utero, troppo infantile per l’estrema giovinezza delle spose, o per immaturità fisica, o per emorragia o altre cause impossibili da riparare in casa. E anche la creatura qualche volta moriva durante il parto oppure soppresso nel secchio se evidentemente troppo malato.

“A Quinta! T’è nata n’antra creatura! Quant’è bella, è ‘na femmina. Che fai, ‘a chiami come la commare tua, Filomena, oppure come me, Annetta?” E rise contenta mentre le metteva in braccio la neonata che le cercò subito il seno. “I’ e maritemo aspettauamo no maschio doppo do figlie! Esse n’atra bocca da campà!” “Conosco certa ggente che pagherebbe oro pe’ ave’ ‘na creaturella bella e sana come la tua. Che me la voi dà? Ce penso io a falla reggina!” “Ma nooo. Ma i’ diceua pe dice… Ddio non vole! E dapo’ che potaria dì la ggente? Dove magneno due magneno puro tre! Vorà di’ che dovremo fa’ n’atro mammoccio.”

Le donne sospirarono la nuova nata, ne lodarono la perfezione delle carni, la boccuccia rosa, i folti capelli neri, la fasciarono stretta stretta, poi lavarono e vestirono la madre, condussero in casa le sorelline che si strinsero attorno a Quintina e alla nuova nata come in un quadro di Velazquez. Riempita la cesta di ben di Dio, la levatrice prima e le vicine poi se ne andarono una per volta per la loro via, lasciando quel piccolo gineceo in attesa del padrone di casa.

Quando Vittorio “raddusse alla casa” sistemò le bestie nella stalletta, si cambiò le scarpe sporche ed entrò in casa: il fuoco era acceso, le bambine gli volarono incontro e gli abbracciarono le gambe, Quintina, colpevole, teneva  silenziosamente la piccola attaccata al seno: “Quintì, so’ saputa la brutta notizzia. Ma n’ ci fa gnente se ha nata n’atra femmina! La mammoccia è bella e sana e puro tu stai bbene. So’ sempre innammorato de ti! Presto i facimo no maschio, chiò, n’ te sta’ a preoccupa’. Certo ca ti putivi sprescià na cica de più, ma che ci fa! Che ci sta ‘a magnà? Tengo fama…”

Related Articles