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La Conchiglia Rosa – Seconda Parte

by Lucia Fusco

Cesare guarì e un giorno di primavera telefonò al gruppo: “Sono guarito, mi sono sposato! Vi aspetto per una grande festa!”. Azzimati, perplessi, stupiti, qualcuno incredulo, dubbioso, altri col pacco del regalo in mano, in una piazzetta nascosta all’Aventino, si presentò con un amico “autista” complice, alla guida di una vecchia Renault 4: incredibilmente si era vestito da sposa, in lungo, la barba curata, un cappello beige di seta a tesa larga e un bouquet di rose rosse, senza sposo. Uno scherzo bellissimo, dopo qualche secondo di perplessità ci abbracciammo e giocammo con le nostre gioventù. Una festa epocale, nella notte romana cibo, musica e coca cola a fiumi dal cofano, fino all’alba. Da un balcone giovani preti scherzarono con noi tutta la notte, godendo dei nostri brindisi analcolici e delle numerose, belle ragazze che ballavano tra noi.

In un freddo e misterioso pomeriggio d’autunno lo vidi alla Stazione Termini, sedeva in mezzo agli ultimi, senza tetto, drogati, vagabondi, alcolizzati col brik di cartone. Era vestito pulito ma poveramente, divideva lo spinello con un giovane nero. Gli sorrisi, lui li lasciò e mi accompagnò al 64. Spiegò che si trovava là per aiutare un amico nei guai. Si raccomandò di girare alla larga da quei posti perché pericolosi per una ragazza…

Di nuovo partì improvvisamente per l’Africa, ancora senza salutare nessuno. Per mesi viaggiò per il Sahara, da Ovest verso Est, sul tetto di un pulmino rischiando la vita. Visitò l’Africa nera, l’Africa vera, quella dei villaggi desertici, lontano dal mare e dalle rotte turistiche. Ma i suoi fratelli lo rintracciarono perché la mamma si era ammalata ed era grave. Tornò subito ma non riuscì a rivederla, noi amici ci stringemmo a lui dopo il funerale. In un pomeriggio “di consolazione”, ammassati sul divano di casa, sulle sedie della cucina, sul tappeto ai suoi piedi, ci affabulò con le storie dei viaggi, del cambiamento che sentiva in lui, ci rivelò che non si sentiva più “razzista”, che avevamo ragione noi, che l’unica razza era quella umana, che non comprendeva come idee “malate” potessero albergare anche in persone intelligenti e sensibili. Desiderava sempre, nel suo pensiero “schizoide”, un mondo ordinato, pulito, migliore, ma sentiva amore e simpatia verso le persone di buona volontà, la diversità del colore era bellezza e non divisione, le lingue dei popoli erano musica…

Gli anni passavano, ci si laureava, si metteva su casa, ci si sposava, avevamo figli. Per un po’ la sua vita ridiventò “normale”, faceva lavoretti per mantenersi senza pesare in famiglia. Non cercava però un lavoro stabile, non voleva mettere radici. Continuava a sparire per mesi, poi ricompariva, si presentava alle nostre feste, ma si avvertiva che la sua presenza era passeggera, che presto avrebbe ricominciato la vita randagia. L’ultima volta che lo vedemmo tutti insieme fu a casa mia. Suonava la chitarra, ma era silenzioso, ascoltava: i matrimoni, i nuovi e vecchi amori, i nostri figli, il lavoro e la sua mancanza, le vacanze al mare e in montagna, le preoccupazioni quotidiane sorridendo, senza aprirsi, senza spiegare, con gli occhi aperti su visioni diverse, sue interiori; ci baciava, ci accarezzava, abbracciava tutti e tutte. Ci salutava di nascosto.

Partì pochi giorni dopo per il Sud-America. Da allora non sappiamo quasi nulla di lui. Negli anni è arrivata qualche cartolina: le Antille, la Foresta Amazzonica, Machu Picchu, la Patagonia, il Carnevale di Rio; il tempo si è portato via la giovinezza, è rotolata come in un fiume i sassi. Sappiamo dai fratelli che sta bene, che insegna spostandosi di villaggio in villaggio, tra i più poveri, accettando ospitalità, un po’ di lavoro e cibo, ha una compagna peruviana che lo segue nel suo andare. Il papà è morto per un infarto, quasi ottantenne. Non è tornato, noi amici ci siamo rivisti al funerale. Sono passati anni, decenni. Sul web, sui social è assente, la famiglia non ama parlare di lui. Non sappiamo bene dove sia, se ha trovato la società perfetta che sognava, se cerca o se ha trovato quiete, se ha realizzato i progetti del suo tempo giovane, gira la voce che avrebbe un figlio, ma sono chiacchiere senza una fonte certa. In realtà mi chiedo se Cesare è ancora di questo mondo, o se lo abbiamo solo sognato.

Quando si è giovani si pensa di essere immortali, degli dei senza tempo, poi un giorno si apre la finestra e il mondo cambia ai nostri occhi anziani, si vedono le crepe, le rughe, le delusioni, i pericoli. I ricordi diventano sempre più dolorosi e amati. Vorrei incontrare ancora Cesare, rivederlo per ridere di nuovo come fossimo ragazzini. Dovunque sia gli auguro con tutto il cuore di essere felice.

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