1949 – Leonora alla veneranda età di ventisei anni, ormai zitella, sposò Eleuterio, un campero, reduce di guerra, decaduto. In cinque anni gli aveva dato due maschi e due femmine. Ma aveva le mani bucate, amava le cose belle, dalle tende al corredo, alle tovaglie candide, gli indumenti intimi, per se’ e per i figli: mutandine, sottovesti, magliette “a carne” col merletto e i fiocchi, come i signori. Non si usavano certi lussi ed era chiacchierata, solo Eleuterio non si accorgeva, gli occhi foderati dall’amore.
Preoccupato, affaccendato: nonostante lavorasse come un somaro, non aveva un soldo, rubacchiava nelle terre e negli orti. Quando usciva con l’Apetta per le campagne a Portatura, lei chiamava per farsi spicciare la casa, il giardino e la stalla: a Natale non c’erano più fagioli, farina, mais… niente, orci di olio e sacchi, vuoti. Eleuterio chiedeva ai vicini se anche a loro le provviste durassero poco ma nessuno gli faceva luce. Portò con se’ i due ragazzini, Renzo e Paolo, che raccoglievano olive, zappavano carcioffole, pazienza per le assenze scolastiche! In pochi minuti rubava frutti, tuteri del mais. Anche Leonora, di nascosto entrava nelle case dei vicini. Una volta fu scoperta con lo zinale di uova. Lei si mise a piangere, e la lasciarono andare con le uova. Tutti serrarono le case, i pollai, gli orti.
La coppia, avendo perso diversi parenti a causa della Spagnola, decisero di vaccinare i figlioli contro il nuovo morbo: la poliomelite. Nel 1953 tutti erano vaccinati. L’anno seguente nacque Angelina, fragile e piccina, decisero che era troppo delicata e non la vaccinarono. All’età di tre anni la piccina si ammalò. Febbre altissima, tanto che pensarono di perderla. Quando guarì era ridotta al lumicino. Nei mesi seguenti si resero conto che era rimasta offesa dalla polio: la gambina destra non cresceva. Il medico condotto spiegò che solo le stimolazioni elettriche all’ospedale San Giovanni a Roma avrebbero potuto aiutarla a guarire. La cura costava e durava anni.
Elenora il mattino dopo, al buio, era già alla Crocetta con la bambina per la corriera per lo scalo, al treno. Quel viaggio della speranza durò qualche giorno, ma poi, non avendo risparmi, finirono “i bocchi”. Tutti fecero una colletta per aiutare Angelina a curarsi. Nei giorni seguenti decise di recarsi dal padrone della corriera: “Sor Trulli, la creatura mea te’ bisogno de i’ a Roma dagli lunedì agli sabbato perché te’ la poliomelite. Io i bocchi pe’ la coriera non li tengo più e cache vota m’hao fatto scenne pe lle coste co’ la creatura in braccio, piagnenne. I male nun ce lo semo accatato, ha venuto isso a casema e Angelina mo’ sta male! Si padre puro tu, aiuteme!” L’uomo si commosse e la accontentò.
Sul treno si nascondevano in bagno per sfuggire ai controllori che sapevano la storia e chiudevano gli occhi davanti a quella bambina sfortunata.
Angelina doveva indossare una specie di pesante gabbia di ferro che le stimolava il movimento e le irrobustiva i muscoli, la cura ebbe buoni esiti, la gambina riprese a camminare. Andare a Roma tutti i giorni era faticoso e difficile. Dormivano nelle chiese, nei confessionali, negli androni dei palazzi, negli angoli più sperduti dell’ospedale. Una sera un’infermiera le scoprì, in un sottoscala, per terra. “Che state a ffa’ qui a quest’ora? Perché nun tornate a casa?” “Addomani cetto tenemo da sta n’atra vota adecco. I n’ ce la faccio più, stongo accisa, me uoglio murì, e puro Angelina sta stracca, dormemo adecco, maritemo lo so auertito che penza isso agl’atri figli, alle uestie, alla casa.” L’infermiera abitava là vicino, col suo cagnolino. Le ospitò a casa sua dove Angelina giocava col cagnolino, una creatura piccola e allegra. Poi trovarono una stanzetta all’ospedale dove restare al sicuro, e mangiare il cibo che avanzava dal giro degli ammalati.
Angelina crebbe. A sei anni finì in collegio a Roma da dove raggiungeva il centro di riabilitazione. Zoppicava ma non portava più la gabbia. Andava a scuola, si sbagliava e chiamava mamma la suora. Vedeva Leonora solo una volta al mese, la famiglia si era impoverita, indebitata, viveva di furtarelli. I vicini fingevano di non accorgersene. Leonora aveva stressato il fisico e si ammalò di depressione. Non ce la faceva a lavarsi e stava tutto il giorno a letto. Da Angelina andava ogni tanto una zia, la bambina era sempre più triste, voleva carezze ed abbracci.
Leonora raccolse le forze, si recò al collegio, sciatta, neccia, i capelli pieni di fili bianchi raccolti in una crocchia: “Madre Superio’, pozza esse benedetta! Nu nun te potemo pagà ma tu fa’ entrà agli collegio pure figlima Rosetta. Gl’anno prossimo te’ da fa’ la prima media, è brava, sa fa’ tutto, v’aiuta. E dapò Angelina n’è più triste se ce sta co’ essa la sore, te prego, Madre bella, Madre santa, famme sta Grazzia!”
Il collegio accolse anche Rosetta, che studiò e lavorò, accompagnò la sorellina a fare le terapie, divisero il letto.
Per anni non videro nessuno, solo Paolo, il fratello minore, scriveva qualche cartolina postale dando notizie e saluti. Uscirono dall’istituto una maestra, l’altra ragioniera, si rimboccarono le maniche… ma questa è un’altra storia.