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Compagni di merenda

by Lucia Fusco

Roma, 1976 – La ragazzina scendeva dall’autobus, frequentava la prima media e dalla periferia raggiungeva la scuola nel centrale quartiere Prati. Lui l’aspettava, posizionato sotto l’edicola della Madonnina, in piedi, appoggiato al muro. Basso, tarchiato, canuto, nel logoro cappotto giallo. Porgeva un piattino lercio, la gente era assonnata, incavolata colla sveglia e col mondo, attendeva il bus guardandosi in cagnesco. Tutti pronti, spingendo e strillando, ad assaltare e salire sugli autobus già pieni all’inverosimile.

Lui ne conosceva l’orario. La individuava: una tredicenne esile, il cappottino ereditato dalla zia, il grembiule nero a nascondere forme appena in boccio, il faccino grazioso, gli occhi timidi e curiosi. Appena scesa dalla bolgia la gente si stirava i vestiti stropicciati, controllava di avere ancora il portafoglio in tasca oppure in petto, poi si disperdeva verso scuole e uffici. Lei andava verso “il vecchietto”, così lo chiamava dentro di lei, e gli dava, tutte le mattine da quando era iniziata la scuola, la sua merenda. Due fette di pane con quel che c’era in casa: marmellata o nutella, verdure o qualcosa di avanzato dalla sera precedente. Lui all’inizio le aveva chiesto la carità: “Mi dispiace, non ho soldi, ho solo questo” e gli aveva porto l’involto, una carta da pane scura. “E’ la mia merenda” gli aveva detto. “Cosa c’è dentro?” “Non lo so, la mamma mi prepara il panino la mattina presto con quello che c’è… io dormo ancora quando lei esce di casa per andare al lavoro.” Lui aveva afferrato lesto il fagottello.

Da quel giorno non si erano più parlati. Lei gli porgeva la merenda, lui accennava un gesto: “Va bene” e arrivederci al giorno dopo. Poi lei raggiungeva la scuola. In ritardo perché non aveva ancora imparato il senso del tempo, a gestirsi, a lottare per salire sugli autobus. Accettava il rimprovero dei professori, farfugliava qualcosa sulla sveglia o sul traffico e raggiungeva il banco. Spesso svagata, silenziosa, impreparata, partecipava poco. La sua compagna di banco, bruttina e smorfiosetta, subiva gli attacchi verbali dei bulletti, lei la difendeva e così erano entrambe isolate dal branco. Ma fingeva che la cosa non le importasse, colpevole di solidarietà con una più debole ancora di lei, taceva. Piaceva ai professori per l’educazione e il rispetto che portava loro. Anche questo non piaceva ai bulletti.

Alla fine del trimestre la prof. di italiano, chiamò la mamma: “Buongiorno signora, ho notato che sua figlia indossa spesso vestiti di almeno una taglia più grande. Come mai?”

“Sono gli abiti della zia, abiti buoni. Ma è sempre pettinata, pulita, lavata, stirata, adeguata. Vero, professoressa?”

Va be’, sì. Ma questo contribuisce all’azione subdola dei compagni…” “Dei bulli intende, signora professoressa? Ma perché non ne sospendete uno? Quindici giorni a casa e smetteranno di disturbare il mondo…” “Vero signora, ma per strada sarebbe peggio. Incontrerebbero i delinquenti veri e potrebbero finire per solidarizzare con questi. Meglio a scuola…” “Va bene, ma allora, professoressa, cosa si può fare? Mia figlia si difende col sorriso, col silenzio… Ma è brava?” “Nelle mie materie è tra le più preparate, si esprime con un linguaggio ricco e forbito, corretto grammaticalmente…” “Adora leggere! A casa legge, disegna e canta tutto il pomeriggio!” “Studia poco le materie scientifiche… un’ultima cosa, signora. Come mai sua figlia non porta mai la merenda? Fino alle 14 la giornata scolastica è lunga… a casa tornerà dopo le 14.30…” “Torna prima lei di me! Comunque io tutte le mattine le preparo il panino! E’ la prima cosa che faccio.”

La professoressa non insistette, i genitori non amano le critiche e comunque, da quel momento, la mamma avrebbe provveduto. Si salutarono con rispetto reciproco. La mamma, sull’autobus, pensò che la prof. sulla merenda si sbagliava, aveva troppe classi, confondeva i suoi alunni…

Il giorno dopo, durante la ricreazione, la ragazzina si sentì chiamare dalla prof. La lodò per l’ultimo compito svolto, poi le offrì un biscotto: “Tu non mangi mai niente durante la ricreazione? Non hai fame?”

“A dire il vero sì, prof., ho fame ma…” “Ma? Tua mamma mi ha detto che ti prepara lei il panino la mattina…”

“E’ vero, ma io lo do a un vecchietto.”

“?”

“Sì, alla fermata del 495 c’è un vecchietto che chiede l’elemosina. Io non ho soldi e allora gli do la mia merenda. Mi fa pena. Lui ne ha bisogno più di me, non ha la mamma, nessuno si prende cura di lui.”

La prof. accusò il colpo. Non disse niente, le dette un altro biscotto, le carezzò i capelli che la facevano somigliare a un cane schnauzer, una “spettinatura” a pioggia che le nascondeva il visetto e i sentimenti. All’uscita andò nell’ufficio del preside.

Qualche giorno dopo la ragazzina non trovò più il vecchietto. Al suo posto un biglietto su un cartone delle scarpe, attaccato con lo scotch: “Grazie di tutto, cara bambina. Panini buonissimi ma devo cambiare zona, ciao ci vediamo.”

Ne fu contenta. In tasca aveva un pacchetto di Pavesini…

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