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Mario “il Maresciallo”

by Lucia Fusco

Anni Settanta – Adele morì dopo una breve malattia; il giardino era fiorito di rose bianche. Lasciava suo marito Romualdo e la loro unica figlia, Loretina, di otto anni. La bambina, nonostante il dolore, raccolse le rose e le portò al feretro della mamma. Le vicine pregavano per lei, senza nonne. Se Adele era stata dolce e sorridente, così non era sua sorella minore Marianna che entrò di prepotenza in casa “per aiutare”, dormì con la nipotina, poi ad ottobre sposò Romualdo, gli spiegò che era la soluzione migliore per tutti e che Adele sarebbe stata contenta.

La vita era serena. Loretina faceva le faccende, aiutava a fare il pane, a preparare la tavola, voleva bene alla zia che chiamava mamma. A scuola era brava. A Natale Marianna si scoprì incinta. Le cose cominciarono a cambiare. Convinse Romualdo che Loretina doveva andare in collegio dove avrebbe imparato a ricamare, a fare i mestieri, e soprattutto che lei non ce la faceva, nelle sue condizioni, a crescere la figlia “di un’altra”.

Ebbe due gemelli, Franco e Mario. Franco, il più bello e più robusto, era la luce dei suoi occhi, per lui Marianna stravedeva. Mario era il figlio più delicato, mite, intelligente. Quando dieci anni dopo nacque Lidano, con un handicap, fu Mario a prendersi cura di lui, si svegliava di notte, lo nutriva, lo lavava. Marianna era presa nella sua opera per il suo unico figlio, Franco, che cresceva prepotente e arrogante. Non studiava, passava il suo tempo al bar ed era lavativo. Mario invece era “casalingo”, passava il suo tempo libero con Lidano e per questo veniva deriso con epiteti sessualmente offensivi da Franco. Mario era brillante negli studi, si diplomò col massimo dei voti e partì come sottoufficiale in Marina: non tornò per cinque anni. Girava il mondo sulle navi militari e mandava la maggior parte del suo stipendio al padre per contribuire a ingrandire la casa che, mese dopo mese, divenne una palazzina.

Tornato a casa constatò che a lui era stato riservato un appartamentino al piano terra, appena due stanze, un fazzoletto di terra che era giardino e orto e un posto auto nello spazioso garage dietro la grande casa; il resto del primo piano era abitato dai genitori e dal fratello piccolo, ormai giovane uomo. La casa era stata rialzata di due piani dove viveva Franco con la giovane moglie e due bambini. Si rese conto che suo fratello e la sua famiglia lo chiamavano “il maresciallo”, non certo con deferenza ma accompagnando il soprannome con smorfie e risatine.

“Tata, perché a fratemo ce si costruito do piagni de casa e a mi che te so’ mannato nu sacco de bocchi in chesti agni mi si fatto do cammere sole? Come ce la porto io ‘na femmina adecco? Che ce dico? Che non semo fuigli tutte e doa?” “Mario, me dispiace veramente, purtroppo madreta è sempre stata ‘na madre disgrazziata, ma è mogliema, la tengo da accide? Essa te’ ‘na preferenza pe’ Franco! Non poteuo fa’ altrimenti!” “E a Loretina?” “Essa ormai s’ha sposata e uiue a Velletri, ce so’ fatta la dota e ce s’ho dato li bocchi, non te’ gnente a pretenne, pora figlia mea.”

Mario capì la situazione e accettò, stava poco a casa e sopportò. Sposò una buona ragazza, innamorata di lui e della divisa… ebbero due bambine e lui chiese un incarico a Roma, al Ministero, viaggiava tutti i giorni. Il padre morì. “Il maresciallo” e la sua famiglia sopportavano angherie: i vasi del giardino rotti, la macchina graffiata, i nipoti prendevano a sassate le cuginette più piccole, il posto in garage era sempre occupato da qualcun altro o qualche cosa, rumori e parolacce a tutte le ore. Sopportavano. Pure Marianna, dalla morte del marito, non voleva in casa le bambine perché “troppo vivaci”, i maschi di Franco invece entravano colle scarpe sporche, padroni della casa della nonna. Il fratello disabile viveva legato ad una sedia ed era raro che la madre gli permettesse di salutare e incontrare Mario.

Una domenica mattina Mario e la moglie andarono in montagna, all’uliveto, per cogliere le olive. Era il primo olio dalla morte del padre. Franco li vide preparare i teli, i sacchi, gli attrezzi, sghignazzò e non disse niente. Arrivarono nel tardo pomeriggio mentre Mario chiudeva i sacchi, pronti per essere portati al frantoio. Franco scese dal trattore colla moglie e i figli: “E che è robba uostra? Che ve siete messi ‘n testa? L’uliveto, la tera è tutta robba mea, se ‘n ci cridi chiedi a mamma! Tata ha lassato tutto a mi. Pe ti ci stao bia chelle do camerette pe’ quei do bocchi ca ci mannaui. ‘N ti caccio solo perché mi fai pena, si fratemo…”

Mario non reagì. Sua moglie pianse, andarono a casa, offesi. Il giorno dopo andò a lavorare come sempre. Al suo ritorno non trovò a casa la moglie e le figlie, forse uscite per qualche commissione. Sentì Franco che armeggiava nel garage. Mario non si cambiò neanche, aprì l’armadio, prese il fucile, lo raggiunse e gli sparò al petto. Franco morì sul colpo.

Al processo tentò di spiegare il disagio di tutta la sua vita. Raccontò il suo dolore, la freddezza, il senso di inadeguatezza. Pagò l’omicidio del fratello con vent’anni di carcere.

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