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Strappi e Ricami

by Lucia Fusco

Anni Cinquanta – Quando Oliviero lasciò la vita, Loretina aveva 37 anni e lui 43. Ereditò la casetta dove vivevano, diversi terreni agricoli, e sei figlioli. Non aveva mai lavorato se non per la famiglia. Si trovò sola, con una minima pensione e un’entrata annuale dell’affitto delle terre a Portatura, ma era decisamente poco. Oliviero aveva insegnato al figlio ventenne Carlo il mestiere di muratore ma questi, tre mesi dopo la sua morte, lasciò l’Italia per il Canada, insieme al suocero e ai cognati avrebbero messo su una piccola impresa di costruzioni; invitò i fratelli minori Luigi, Tommaso e Lidano a emigrare con lui ma Loretina: “Tu te ne uai perché alloco agli Canadà ti’ affecchi e lauoro, ti spuserai Marietta, ma i frati tei stao bene adecco agli paese cu’ mi, e che, me voi tolle la uita? Me vù fa’ murì?”

I tre giovani muratori la mattina presto raggiungevano Roma, tornavano con il treno delle cinque o le sei, stanchi. La madre non prendeva per se’: “Manco ‘no bocco! Vi so’ fatto ‘no libretto de risparmio pe’ du’, accosì dapo’ ci ritrouerete tucchi i quatrigni che sete guadagnato cogli lauoro uostro.”

Era ricamatrice e da quel momento, la passione divenne un lavoro: corredi per le ragazze da marito, vestiti da sposa, veli, rammendi, tende, cifre, eccetera. Aveva imparato dalle suore l’arte del ricamo e nessuna in paese era più brava di lei. Guadagnava ma il sacrificio era enorme. Iniziava il mattino alle prime luci del mattino e non smetteva se non per preparare “nu uccone”. Luisa, la maggiore, era maestra, lavorava in una scuola di campagna, a volte fino al pomeriggio, raggiungeva il luogo di lavoro col fidanzato in Lambretta, oppure prendeva la corriera e percorreva a piedi il resto della strada. Amata e apprezzata nella affollata e silenziosa pluriclasse. Al ritorno trovava il piatto coperto sul tavolo, al pari di quello dei fratelli muratori. La madre era orgogliosa della figlia maestra, lei aveva fatto la seconda elementare e poi non era più andata a scuola perché non serviva a una femminuccia imparare tanto. Sapeva i mestieri di casa, il ricamo, il cucito; non se ne doleva; si sentiva orgogliosa per Luisa, tanto bella quanto sapiente. Anche i maschi tornavano da Roma nel tardo pomeriggio, si lavavano, mangiavano e uscivano con gli amici. L’ultima figliola, Letizia, l’anno in cui aveva perso il padre aveva iniziato la prima media, era bella, delicata, dormiva nel lettone con Loretina. La domenica la buona madre radunava i figlioli, apparecchiava con cura, preparava sughi, fettuccine, laccane o lasagne, dolci, preparava il pane per le zuppe di pane e fagioli. Durante il pranzo domenicale voleva che tutti fossero presenti, ben pettinati e vestiti decentemente, chiedeva uno per uno come si era svolta la settimana, li interrogava sulle amicizie e le frequentazioni e alla fine del pranzo leggeva la lettera di Carlo, più volte la stessa, finché non arrivava quella nuova… Letizia era piccola, silenziosa, studiosa, dopo pranzo insieme alla sorella maggiore lavavano i piatti e pulivano la cucina, poi uscivano insieme col fidanzato di Luisa per una passeggiata ai Cappuccini. Si sposarono uno dopo l’altro, cominciò Luisa. Tutti rimasero al paese. Loretina ricamava. Un giorno le arrivò la voce che Letizia, arrivata all’ultimo anno delle scuole magistrali, sulla corriera per Latina, riceveva le attenzioni di un giovane “forestiero”. Una mattina la seguì di nascosto, con occhialoni e un fazzoletto. Sulla corriera si rese conto che era tutto vero: un giovane sedeva accanto a Letizia e le teneva la mano! Si avvicinò e li costrinse a scendere allo scalo, tornarono su in paese a piedi e a casa volle spiegazioni: “E che, se fa l’amore pe’ lla strata?  Nun me si ditto gnente! Ma accom’è?  Che po’ dice la ggente? Mi credeuo che tiniui le ceruella, Letì!”

Il giovane si presentò, non straniero ma figliolo adottivo di un campero, e voleva sposarsi subito: “Ma a che serue ‘sta scola? Quanno sai scruive, sai contà, sai legge, a che serue studià? Studiano gl’ignoranti ca nun sao gnente! Letizzia farà la signòra a casema, atro che ì a laurà!”

“I babbao! Se figlima propio te uo, io non tengo gnente in contrario, ma prima se deve tolle i’ pezzo de carta e doppo facete i matrimonio! ‘N sammai ci capita quello ca ha suceso a mi, almeno ‘n s’accide de fatia, fa la maestra accome alla sore!”

Letizia si diplomò e si sposò, Loretina restò sola. Carlo tornò dal Canada, vedovo, senza figli, coi fratelli aprirono una ditta di costruzioni. Andò a vivere con la madre, chiamò tutti: “’N è ggiusto ca mamma continua a cecasse gl’occhi ‘ncima a pagni e lenzola ‘ntrui. Basta laurà, mo’ ci pensamo nu a essa! Sete d’accordo? Mamma fa no mese pe’ du, così è contenta essa e semo contenti pure nu’”

Era felice, la pensioncina le bastava, amava Carlo, perché più solo, ma volava di figlio in figlio. Era accolta con affetto perché era un’ottima cuoca, amava nuore e generi, adorava i nipoti, dovunque portava il suo borsellino che apriva generosamente. Durante una festa le chiesero chi le fosse più caro: “Le deta della mano te fao male tutte perciò tutte so’ care pe’ mme. Forze ‘na cica de beno de più lo so avuto pe’ Letizzia perché c’ha mancato i padro ca teneua solo deci agni, così ce so’ uoluto più bbene, ma le stoltizie non le so’ fatte a niciuno fuiglio, pe’ mme sete tucchi uguagli.“

Una mattina Luisa la trovò addormentata per sempre. Tra le mani l’anziana madre stringeva ancora l’uncinetto con il centrino che stava preparando per il corredo della nipotina.

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