Era il 1971 quando Fabrizio de André firmò questo capolavoro. Un album che diede inizio ad un periodo, quello degli anni ´70, che mai più, come per il rock, sarebbe stato così illuminato. Ispirandosi all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, De André, aiutato da Giuseppe Bentivoglio (testi) e Nicola Piovani (musiche), raggiunge un’intensità lirica e compositiva impressionante, senza mai l’ombra di una flessione. Nove canzoni che è impossibile interrompere, ogni volta si deve e si vuole arrivare fino alla fine. Le nove poesie adattate ai giorni nostri toccano due temi: l’invidia (Un matto, Un giudice, Un blasfemo, Un malato di cuore) e la scienza (Un medico, Un chimico, Un ottico). I protagonisti di queste storie parlano con estrema sincerità, perché non hanno più da aspettarsi niente, non hanno più niente da pensare, ora che sono morti non possono essere più invidiosi, non possono più essere competitivi. Così parlano con quella chiarezza che da vivi non hai mai posseduto. Da notare che qui tutti i protagonisti hanno nomi generici per sottolineare che le storie di questi personaggi sono esempi di comportamenti umani che si ritrovano in ogni epoca e in ogni luogo della terra, in ogni città e in ogni contesto sociale. L’unico personaggio ad avere un nome è “Il Suonatore Jones” forse perché Fabrizio si sentiva molto vicino a questo personaggio che suonava non per lavoro ma per puro piacere, era quindi un personaggio libero che non aveva preoccupazioni e che “non volgeva il pensiero non al denaro non all’amore né al cielo”. Abbiamo quindi “Un Blasfemo” che, come Adamo ed Eva, cerca la mela della conoscenza non più in mano a Dio ma al potere poliziesco del sistema, per il quale il paradiso è solo un mondo di sogni in cui rinchiudersi per non vedere la realtà, c’è “Un Matto”, che per invidia studia la Treccani a memoria e viene rinchiuso in un manicomio, perché ne sapeva troppo o forse perché era impazzito, o comunque perché alla gente faceva comodo chiamarlo scemo, scaricando su di lui le proprie frustrazioni. “Un Giudice” rappresenta poi l’amaro frutto della maldicenza che “batte la lingua sul tamburo” condannando l’uomo piccolo di statura ad un isolamento rancoroso e vendicativo, destinato a sfociare poi in una individualistica manipolazione del potere a servizio della propria personale rivalsa. Abbiamo “Un Medico” che voleva curare gratis i suoi malati, trasgredendo le regole del sistema, che di quella trasgressione si vendica imprigionandolo; “Un Malato Di Cuore” che, nonostante le sue condizioni lo spingano più di altri ad invidiare la spensieratezza altrui, riesce comunque a sconfiggere con l’amore la molla che fa scattare la competizione. Muore in un incontro d’amore, regalando un sorriso e un bacio ad uno sguardo a cui non chiese promesse o ricompense, solo la gioia dell’ultimo istante. Anche musicalmente siamo ai vertici: gli arrangiamenti orchestrali di Piovani sono perfetti così come l’equilibrio degli strumenti che accompagna la voce di Fabrizio in ogni passaggio. Suoni ricchi quando serve maggiore enfasi, asciutti quando occorre dare più profondità alle parole.
Non al denaro non all’amore né al cielo
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