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Prozac + Acido Acida (1998)

by Matteo Fraccarolo

Correva l’anno 1998 e il gruppo friulano composto da Gian Maria Accusani, Elisabetta Imelio e Eva Poles con “Acido Acida” si ritagliava, forse inaspettatamente, un ruolo da protagonista in una stagione con loro album-manifesto.

Al tempo in Italia il punk era arrivato subito, sia pure nella versione ricontestualizzata dagli Skiantos, e successivamente, una volta superata qualche iniziale diffidenza politica della scena alternativa nostrana, i tempi cominciavano a essere maturi perché il genere fosse sdoganato.

Dopo aver esordito con un disco che già presentava il loro stile compiuto (Testa plastica, 1996), col secondo disco fanno il botto grazie alla quasi omonimacanzone. È un punk che si presenta colorato nel look, aggressivo nel suono, ma allo stesso tempo solido e pulito, cantabilissimo e col vizio delle vocali allungate a fine verso, con testi che affrontano temi come droga e rapporti umani alternando filastrocche spolverate da una leggera follia/demenza con un andare dritti al dunque: tutti elementi che li rendono poco credibili agli occhi di molti, o addirittura ridicoli o degni dell’odio dei puristi, mentre dall’altra parte la prominenza del tema droga attira il mainstream mediatico italiano che fatica tuttora ad affrontare il tema.

Ma se all’epoca vendono la cifra inimmaginabile di 175.000 copie, oltre alla potenza della hit, è perché dietro ai difetti visibili c’è anche altro.

In “Acido Acida” non ci sono lanci di slogan politici o alzate di barricate, anzi, l’intero programma non si discosta mai dalla melodia facile, dalla strofa.

“Acida” mette in luce lo stato d’animo di chi la felicità riesce a trovarla solo tramite l’uso di pastiglie, prendendo la traiettoria della sfrontata leggerezza. Si riesce così a spingere in velocità le storie tristi di “Colla”, quella utilizzata per mettere insieme i cocci di una vita, e la superficiale follia di “Ho raccontato che”. Una bizzarra divergenza tra furore punk e orecchiabilità pop che si manifesta con spiazzante disinvoltura, in “Prato” come in “Quore” e “Baby”: crudi e diretti, ma anche edulcorati e sbarazzini al punto da essere accessibili alle masse in una sequenza di favole nere confezionate in una grafica luccicosa e allegramente pop.

Poche le variazioni sul tema: in “Ics” i ritmi si fanno più lenti, mentre in “GM”, esposizione di un umano annullamento, e nella latente disperazione di “Betty tossica” la Poles cede il microfono all’unico uomo del gruppo, spezzando così una catena di brani fin troppo omogenea.

È un disco che stilisticamente non varia molto dall’inizio alla fine, e che come tutti gli altri, funziona finché funzionano le melodie e non sempre accade: vedi la ripetitiva Betty tossica, che pure come storia ha una sua forza («un’eroinomane, la più bella che c’è / ha 15 anni ma ne dimostra 30 […] l’eroina le dona»), o altre. Eppure, senza esigere granché nella sua sostanza, ha una capacità quasi unica di muoversi in equilibrio sul confine che divide i poli opposti della parodia e della serietà, cogliendo al meglio lo spirito contraddittorio del proprio tempo.

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