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Osanna – Palepoli (1973)

by Matteo Fraccarolo

Riabbracciare la luce dopo essere disceso nelle tenebre degli inferi. È la sintesi dell’onirico viaggio di un umanoide nelle misteriose viscere delle gallerie sotterranee napoletane all’indomani di un imprevisto naufragio sugli scogli dell’isolotto di Megaride.

Prende spunto da questa surreale e suggestiva trama narrativa “Palepolitana” il concept targato Osanna, sentito attestato di amore per la propria città d’origine e per la napoletanità in genere. Lontana da facili e decadenti preconcetti l’opera esalta il pulsante cuore artistico della città di Pulcinella visitando idealmente le magnifiche stazioni d’arte contemporanea disseminate lunga l’importante arteria sotterranea di trasporto pubblico; non a caso il titolo del disco si presenta come la miscela dei termini Palepoli, antico nome di Napoli, e metropolitana.

L’opera si svolge come un’odissea attraverso i secoli, e si articola intorno ad un teatro sperimentale, piuttosto primitivo, che trova il suo riscontro musicale in certe volute imperfezioni tecniche, in una immediatezza che non è mai però rozzezza, nella sfasatura dei cori e nel missaggio che non è quello perfettissimo di altre occasioni.

Suddivisa in dodici tracce, l’itinerante Palepolitana si apre con le melodiche note di Marmi, poetica narrazione d’introduzione che anticipa la rilettura di due classici folk partenopei quali Fenesta Vascia e Michelemmà, quest’ultima tradizionale tarantella nella quale prendono parte come coristi alcuni detenuti del carcere di Secondigliano di Napoli, legati al progetto musicale promosso dal CPM di Franco Mussida e condotto dallo stesso Vairetti. L’invocazione dai tratti rock-fusion rivolta a Santa Lucia precede il monologo al piano di Priore intitolato Anto Train mentre la successiva Anni di piombo si muove sulle trame di una misurata ballad animata in chiusura dal sax di Jackson. La title track recupera ritmiche care agli Osanna, ricordando nel suo serrato mood il sound tipico della band di inizio anni settanta mentre all’interno dei riff diretti di Made in Japan si parla dell’incerto connubio uomo-tecnologia con impliciti ammiccamenti alla realtà nipponica. Decisamente significativo il canto d’amore Canzone amara, affascinante esecuzione in dialetto napoletano in cui l’intensa interpretazione di Sophya Baccini brilla immersa nelle vibrazioni di un celestiale quartetto d’archi. Un’acustica melodia scorre sulle corde di Capobianco nella strumentale Letizia aprendo la strada al solare inno rock Ciao Napoli, mentre Irvine Vairetti suggella il progetto recitando la struggente Profugo, composizione liberamente ispirata alle poesie del palestinese Darwish sul tema, drammaticamente attuale, dell’immigrazione.

Vairetti e i suoi Osanna confermano innate abilità artistiche di rappresentazione finendo per dispensare quel sentimento e quella genuinità che sono tipici della teatralità sanguigna e popolare dei saltimbanchi.

Il gruppo ha saputo conciliare la musica con l’immagine, senza però condizionare l’una forma d’arte in funzione dell’altra. L’uso del mellotron e del sintetizzatore, le chitarre e specialmente quella elettrica di Danilo Rustici che, pur essendo un discepolo di John McLaughlin, è uno dei più originali strumentisti italiani, i fiati insuperabili di Elio distribuiti con precisione e parsimonia, i testi intelligenti e provocanti, beni inseriti negli spazi musicali senza rappresentare un momento staccato nello svolgimento della musica

Tecnicamente ineccepibile Palepolitana è veramente un gran bel sentire.

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