Al di là della retorica e delle frasi di circostanza, è innegabile che il terzo album sia sempre un momento fondamentale nella carriera di ogni band: il momento in cui mostrare definitivamente la maturità artistica e cominciare a ragionare in grande.
Questo momento arriva anche per i Verdena, che a tre anni di distanza dall’ultimo “Solo un grande sasso” del 2001, tornano con “Il suicidio dei samurai”.
Completamente autoprodotto per precisa scelta del gruppo, proprio quando la casa discografica sarebbe stata pronta ad investire su un produzione di fama internazionale, ci piace pensare che “il suicidio dei samurai” a cui il titolo fa riferimento sia il gioco al quale il gruppo ha sfidato la stessa industria discografica, armato della sola arma affilata che è poi la propria musica, oltre che di una fiducia cieca verso di essa.
Il disco al primo ascolto risulta torbido, lontano dai canoni e dai riferimenti ai quali le registrazioni fino ad oggi prodotte dal gruppo ci hanno abituati, il suono è sporco e malato. Sono necessari più ascolti per assimilarne l’attitudine spartana e spesso violenta, cosa che da sempre ha fatto la fortuna degli infuocati live del gruppo, e che mai avremmo immaginato potesse venir catturata in maniera tanto convincente in studio.
Riff aridi e ritmi convulsi, mai tanto vicini alla visceralità rock dei primi anni ’70 che non alle sue artefatte reincarnazioni di inizio millennio fanno intendere quanto i nostri abbiano letteralmente macinato i vecchi vinili di MC5 e Led Zeppelin.
“Il suicidio dei samurai” è con queste premesse la conferma di un percorso musicale coerente ed in continua evoluzione, al quale i Verdena partecipano con assoluta dedizione e con la giusta dose di sfrontatezza.
Un album che farà muovere la testa ascolto dopo ascolto, forte di una sezione ritmica come non se ne vedevano da tempo da queste parti, una chitarra lancinante e straziata ed un misurato mellotron che si amalgama alla perfezione al resto. I testi rimangono un capitolo a sé, volutamente lontane dal dimostrare o comunicare alcunché, semplice contrappunto alla musica e del resto in linea con un’istintività che si limita a tracciare i contorni di stati emotivi senza alcuna poesia apparente se non quella del suono delle parole stesse. Ecco ora quindi testi che sono disgusto (Logorrea), ora tensione (Balanite), ora rassegnazione (Far fisa) accompagnare rispettivamente un rock malato, una ballata dalla cadenza ossessiva, una cavalcata dal finale malinconico.
Brano simbolo dell’album è sicuramente ‘Luna’, non a caso primo singolo, contraddistinto da quella vena malinconica che anima da sempre i Verdena ed ideale punto di incontro tra le sonorità dei due album precedenti.
“Il suicidio dei samurai” marca definitivamente le distanze tra gli originali Verdena e la miriade di emulatori che rincorrono senza giungere ad eguagliarlo il carattere della band, che senza dubbio si conferma una delle realtà più vitali e credibili in circolazione. Per convincersi di quanto sia essa una realtà indispensabile al nostro rock di oggi è necessario fare la cosa più semplice: ascoltarli.