1913 – In una bella contrada di Suso un anziano padre non riusciva a fare le divisioni tra i suoi tre figli maschi. Alle figlie era stata data la dote e niente avevano più a pretendere. Il maggiore non era interessato, s’era fatto dottore, sposato, viveva a Roma, ma Giacomo e Salvatore litigavano sulla divisione dell’immenso casale, le stalle, le cantine, le belle terre di frutteti, oliveti, vigneti.Il vecchio zio Luigino ormai solo, mite,amato fratello maggiore del padre, abitava in un casaletto nella proprietà,metteva pace tra i nipoti e li richiamavaalla condivisione e all’affettuosafratellanza. Le montagne e i boschi incoronavano il luogo fresco e sano. Il padre morì primadi trovare un accordo. Un nobile vicino, Lorenzo, dispiaciuto per il dissidio dei fratelliche conosceva da sempre,propose loro di piantare delle siepi di biancospino come recinzione. Architettava che a primavera i fiori, la loro bellezza, il colore puro eil profumo splendido avrebbero addolcito gli animi dei due litiganti eavrebbero capito che l’unica soluzione stava nella pacifica coabitazione, nell’armonia e nella collaborazione. Un giorno il bravo vicino incontrò Giacomo. Entrambi erano a cavallo, il fucile in spalla, gli stivali, il cappello in testa: “Buongiorno Giacomo, funziona la siepe?”. “No!”.“Quando arriveranno i fiori bianchi porteranno la pace”. “No, Lorenzo! C’è posto solo per uno in camposanto, e l’altro in galera”. I motivi di tanto odio erano sconosciuti a tutti, forse a loro stessi.Il vicino spese altre buone parole, intanto pregava per un miracolo e sperava in un accordo pacifico e bonario. Una tragica sera i fratelli si ritrovarononella stessa osteria con due diverse compagnie di amici. Tra le risate e gli scherzi delle brigate si osservarono reciprocamente di sottecchi, vuotando i bicchieri di bianco. Al ritorno, brilli, sul vialetto di casa tra i biancospini in fioredal profumo intenso e delicato, i minuscoli petali che brillavano sotto la luce della luna, Salvatore precedeva avanti con un suo amico col mandolino, Giacomo indietro allungò il passo e raggiunse il fratello: “Saluato’, i compagni mei m’haoditto stasera ca tu mi fai zeco i cappotto!” . “Nese’ Giacomo! Ma chi ti scerne, i’ manco ti penso,masannò mi uie’ i male de’ panza”. “Disgrazia’, si’ finito di dirmi de male!” E gli sparò dritto al cuore due schioppettate secche. Poi rivolse la canna del fucile all’amico che provò a difendersi facendosi scudo col mandolino, ma Giacomo esplose due colpi eil musicista crollò sull’arbusto, col mandolino stretto in petto, spezzando i rami del biancospino,il sangue macchiò i fiori profumati. La mattanza non era finita: bussò allo zio Luigino e lo uccise senza una parola mentre questi gli apriva la porta di casa. L’assassinofuggì, si rifugiò in montagna nelle grotte. Di giorno dormiva nascosto, tutto vestito, coperto dal tabarro, colle mani strette sul ferro del fucile, la notte era condannato a rivivere il male fatto e a discutere coi suoi fantasmi. Nel grande casale rimase sua moglie Luisa coi figlioletti, soli. Nelle notti senza luna, di nascosto, Giacomo si arrischiava a ripresentarsiin casa, si lavava, si rifocillava, riposava qualche ora, prendeva un po’ di provviste e fuggiva di nuovo. I carabinieri gli facevano le poste ma lui si dileguava come un gatto nero nella notte. Qualche volta incontrava Lorenzo dietro un grande albero di ciliegio e gli chiedeva notizie, aiuto per i figli, la moglie. Questiper carità cristiana non si tirava mai indietro e gli dava aiuto anche economicamente, pane, formaggio, olive, carne secca, vestiario, qualche libro. Una mattina presto Lorenzo sentì bussare alla porta. Era Giacomo col fucile in collo: “So’ stato ‘no pazzo!Uango in caserma, a costituirmi. E’ più d’un anno ca so’ uccel di bosco, smetto ‘sta uita, mi raccomando, aiuta mogliemaefiglimi. N’ ce fa’ perde’ la proprietà, issi so innucenchi”. Lorenzo ebbe paura ancora una volta e non riuscì a chiedere all’assassino il motivo per cui avesse sterminato suo fratello, l’amico e l’anziano zio, perché, col suo carattere brutale e pazzo, senza motivi apparenti, avesse voluto uccidere tre poveretti, cancellarne il futuro e rendere infelice la sua stessa progenie. Al processo Giacomo fu condannato a quarant’anni di carcere, diversi in isolamento, a pane ed acqua. Nel carcere di Monte Lupo non c’erano finestre e la luce filtrava solo da buchi nel soffitto. Ammaestrava i topi e viveva nel silenzio. Non spiegò mai ad anima viva il motivo di tanto odio, di tanta violenza, di tanta distruzione. Negli ultimi anni della sua prigionia una nuova legge avrebbe permessoalla moglie e ai figli ormai adulti di chiedere l’accoglimento del padre in casa, sotto loro custodia, “arresti domiciliari” diremmo oggi.La famiglia temporeggiava, avevano sofferto tanto, avevano paura di lui. Il medico militare diagnosticò il fatto che Giacomo era un uomo violento e imprevedibile, non concedette il rilascio. Giacomo morì a pochi mesi dalla libertà nella sua cella deserta.
Il sangue del biancospino
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