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Storia di Marcello

by Lucia Fusco

Roma, Anni Ottanta

Il padre impiegato alle Poste, la mamma faticava ad arrivare a fine mese con un solo stipendio e quattro figli adolescenti, così lavava le scale per il quartiere Prati. Una coppia onesta, senza grilli per la testa. Marcello era il primogenito. A giugno aveva ottenuto una buona maturità, aveva sinceri amici, figli di persone per bene. Alto, moro, snello, occhi smeraldini di ardore e gioventù; fece il militare come paracadutista nella Folgore, a Pisa, era “fascio” ma la sua comitiva romana era “mista”, tra compagni, democratici-cristiani, cattolici, studenti libanesi, estremisti di tutte le idee, ignavi… Quei giovani studenti il sabato pomeriggio discutevano di ogni cosa seduti nei tinelli delle case dei loro genitori, filosoficamente, della vita, della politica, di attualità, con toni accesi ma mai violenti o aggressivi. Dopo, tutti insieme a divertirsi con poco, perché soldi non ce n’erano: una passeggiata in centro, un gelato, un cinema di seconda o terza visione, una pizza, una bomba a piazza San Giovanni di Dio prima di andare a dormire. In generale tutti pensavano che la società stava evolvendo, che la Cultura avrebbe portato lavoro, benessere, pace sociale, libertà, leggi più giuste per tutti. Tutti avevano sogni e speranze, anche egoiste. Marcello era il più ribelle. Sognava un mondo “perfetto”, di persone “capaci”, voleva uno Stato forte, centripeto, senza debolezze o schifezze, voleva “l’ordine”. Intanto però scopriva una sessualità “strana”, disordinata, pulsioni pansessuali mal digerite dal gruppo. Una visione “achillea” sull’amore, eroica, dove Patroclo e Briseide si confondevano in un unico afflato. A soli ventidue anni si laureò a pieni voti in Economia e Commercio e cominciò a lavorare, astemio, in un’azienda di vini e liquori di un parente del padre, per aiutare la famiglia. Una brutta sera, uscendo dal lavoro, in una zona industriale buia, vicino al raccordo, insieme a un collega, venne aggredito da tre estremisti di sinistra. Marcello torse il polso all’aggressore e gli dette la coltellata destinata a lui. Lo ferì in modo grave e finì a Regina Coeli, alla Longara per un bel po’. Subì diverse umiliazioni e violenze. Riuscì a dimostrare che si era difeso e tornò libero. Ma era cambiato. Taciturno, nervoso. Lasciò il lavoro e partì per l’India, senza salutare nessuno. Visitò Lhasa, in Tibet, dove vide il prodigio della levitazione di un monaco, imparò la lingua indiana e i sapori di quella cultura millenaria, assaggiò dei funghi allucinogeni che lo lasciavano stordito e che toglievano il dolore. Dopo un anno da randagio si tagliò un piede e contrasse l’epatite virale; l’ospedale era un luogo terribile, riuscì a “fuggire” e tornare in Italia. Dopo un po’ telefonò agli amici: “Sono guarito, mi sono sposato! Vi aspetto per una grande festa all’Aventino!”. Si presentò con un vestito da sposa, in lungo, con la barba curata, un cappello beige di seta a tesa larga e un bouquet di rose, senza sposo. Uno scherzo bellissimo. Una festa epocale, nella meravigliosa notte estiva romana cibo, musica e vino a fiumi in una piazzetta nascosta, fino all’alba. In un freddo e grigio pomeriggio d’autunno due amiche lo incontrarono alla Stazione Termini che sedeva in mezzo agli ultimi. Era vestito pulito anche se poveramente, divideva uno spinello con alcuni senza tetto. Sorrise loro, lasciò il gruppetto e le accompagnò al 64. Spiegò che si trovava là per aiutare una persona. Si raccomandò di girare alla larga da quei posti perché pericolosi per le ragazze… Pochi giorni dopo partì per l’Africa. Per mesi viaggiò per il Sahara, da Ovest verso Est, sul tetto di un pulmino rischiando la vita. La famiglia lo richiamò perché la mamma stava male. Tornò ma non fece in tempo a rivederla e gli amici lo incontrarono tutti insieme. In un pomeriggio “di consolazione” raccontò che non si sentiva più “razzista”, che l’unica razza era quella umana, che non comprendeva come quell’idea potesse albergare nelle menti. Desiderava un mondo ordinato, pulito, migliore, ma sentiva amore e simpatia verso tutte le persone di buona volontà, che la diversità del colore della pelle era bellezza e non divisione, che le lingue dei popoli erano musica… Per un po’ riprese la vita “normale”, faceva lavoretti per aiutare la famiglia e mantenersi senza chiedere niente. Poi spariva di nuovo, all’improvviso ricompariva, si presentava alle cene in casa dei vecchi amici, ma si avvertiva la sua vita vagabonda. L’ultima volta che gli amici lo videro fu nel 2000 a casa di un’amica. Non parlò molto, fu in ascolto della vita degli altri, i matrimoni, i nuovi e vecchi amori, il lavoro e la sua mancanza, sorridendo in silenzio, senza aprirsi, senza spiegare, con gli occhi aperti su visioni diverse, sue interiori. Partì ancora senza dire niente per il Sud-America. Il tempo si portava via la giovinezza, come un fiume fa con i sassi. I vecchi amici seppero dai fratelli che stava bene, insegnava spostandosi di villaggio in villaggio, tra i più poveri, accettando ospitalità e cibo, aveva una ragazza peruviana che lo seguiva. Il papà morì all’improvviso. Marcello non tornò. Sono passati anni, decenni. Non si sa più niente di lui, i fratelli non rispondono alle richieste di notizie. Sul web, sui social è assente, non ci sono informazioni che corrispondono al suo nome. Non si sa dove sia, se abbia trovato la terra perfetta che desiderava, se continua a viaggiare per il mondo, se ha realizzato i progetti del suo tempo giovane, se è solo, se ha una famiglia, dei figli, se è ancora di questo mondo. Quando si è giovani si pensa di essere immortali, degli dei senza tempo, poi un giorno si apre la finestra e si vede il mondo con occhi anziani, si vedono le crepe, le rughe, le delusioni, i pericoli. Dovunque sia gli auguriamo di essere felice.

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