Anni Venti, Bassiano –I boccoli biondi le ricadevano sulle spalle, gli occhi ridarelli e grandi illuminavano il mondo. Era la decima figlia, l’ultima. Rosetta era nata quando la mamma credeva di non poter più procreare. Invece si era scoperta incinta. I fratelli più grandi aiutavano già il padre, erano pastori, vivevano nelle “chiaviche” tra burroni e sassi. Nascevano mentre le madri andavano appresso alle bestie, si accasciavano a terra e tornavano a casa la sera con un altro figlio avvolto nello zinale. I mariti le accoglievano contenti se era maschio, un po’ contrariati se femmina. Un mondo rustico, semplice, duro. Una vita di lavoro, pochi i divertimenti, i momenti felici. Rosetta fu l’ultima figlia ma la prima a nascere tra le lenzuola perché Veneranda non ce la faceva più a trascinare il suo pancione dietro alle pecore. Le sorelle e le vicine erano scandalizzate che avessero ancora testa per “quelle cose”, ma Veneranda non poteva sottrarsi al marito, era una buona sposa. “Sta uttera è Grazzia di Dio, Venera’, chessa te starà vicina alla vicchiaia! Tenetella stretta.” Quando Rosetta andò a scuola i suoi fratelli erano già sposati. Per due anni la bambina affrontò le piogge, i geloni, il freddo, poi si convinse a smettere la scuola, era troppo lontana, si dispiacque perché le piacevano le operazioni alla lavagna, le poesie, le preghiere. Non aveva mai preso bacchettate o altre punizioni perché era bella, docile, sempre pulita e il maestro la portava ad esempio. Tutti i giorni la bambina si asciugava “le pezze” al fuoco e scaldarsi ma le venivano i geloni che davano dolore. A volte si scottava al fuoco e venivano “i parenti”, macchie, ustioni superficiali.
Crebbe senza pensieri all’aperto stando appresso a pecore e capri. Pascolava, cantava, ripeteva poesie e preghiere, inventava storie guardando le nuvole, coglieva erbe e fiori. Diversa. Sembrava figlia delle fate, sorridente e tranquilla. Aiutava la madre senza che la si dovesse obbligare o chiedere. Sembrava una piccola donna. I suoi fratelli e sorelle più concreti, obbedienti a quella vita che non si erano scelti ma che li aveva destinati alla pastorizia. I vestiti erano fatti di stracci smessi dalle sorelle, ai piedi le ciocie, le gambe fasciate estate e inverno di pezze per proteggersi dagli insetti e dal freddo. Un grande scialle di lana nera la proteggeva dal vento. Rosetta, regina del pascolo, li indossava tranquillamente, non sapeva quanto questa povertà la rendesse comunque bella. Osservava la moglie del padrone, i vestiti eleganti, i cappellini, le borsette intonate alle scarpe col tacchetto, i gioielli, senza invidia. Da sempre il figlio del padrone la guardava con occhi ammirati. Da bambini avevano pure scherzato insieme, ma Raffaele veniva richiamato dalla mamma prima che potesse sudare, sporcarsi, contaminarsi con i figli del pastore. Erano cresciuti parlandosi con gli occhi, sorridendosi, senza poter giocare.
Era giugno, Raffaele si era diplomato e a novembre avrebbe raggiunto Roma per studiare e diventare avvocato, come il padre e il nonno. Era felice di avere quel tempo per se’. Rosetta era un fiore, bellissima, i capelli d’oro intrecciati con nastri che le riportava la mamma dal mercato, un personale perfetto. Era la fata dei pastori, nessuna sorella, nessuna zia, ne’ Veneranda le somigliavano nelle fattezze e nei colori. I giovanotti aspettavano la domenica per vederla passare quando entrava e usciva dalla Chiesa di Sant’Erasmo e nessuno di loro mancava quando c’era la processione al Santuario del Crocefisso.
Rosetta non guardava nessuno. Raffaele era l’unico uomo per lei. Per tutta l’estate i due giovani passarono insieme ogni momento, lui le stava accanto, le parlava dell’infanzia, le confidava i suoi timori per lo studio che doveva affrontare, le raccontava i viaggi che aveva fatto con la madre e il padre, il suo essere figlio unico, le raccontava della sua casa a Roma, dove avrebbe vissuto per i prossimi cinque anni, la rassicurava sul fatto che sarebbe tornato tutte le estati, là nel sua magione estiva, che l’avrebbe raggiunta al suo casolare. Rosetta aveva poco da dire, lo ascoltava rapita, negli occhi una preghiera che non sapeva proferire. Una mattina di fine ottobre a casa del padrone: “Figlima Rosetta è prena, ha stato figlieto Raffaele, atri non conosce. Ha stato isso. Mò se la deue spusa’. Ci uo’ i matrimonio.”
Raffaele avrebbe voluto protestare, dire che lui Rosetta non l’aveva toccata perché l’amava di un amore casto e sincero, un amore impossibile chè i suoi genitori non avrebbero mai accettato. Volle credere in un miracolo.
Seguì il padre fino alla capanna. Lei era seduta fuori, si faceva la treccia. L’uomo le ordinò di scoprire la pancia. Rosetta guardò la madre che strinse le spalle e fece ‘nzinga con la testa di sì. Il padrone la fece alzare poi le saggiò bene il ventre, le toccò le mammelle, la faccia, le gambe. I due giovani tacevano, Veneranda guardava lontano. “Figlieta non è prena, il matrimonio non si fa.”