Suso, 1952 – Erano i primi di giugno, le due cognate partirono da via Murolungo alle prime luci del giorno, il cielo chiaro e sereno. Lidia e Menica erano mogli di due fratelli, Paolo e Lidano. Menica vestiva di nero, il 18 luglio sarebbero stati due anni che era restata vedova, senza figli. Lidano era sceso nelle campagne e un malore lo aveva rubato alla vita mentre cercava riparo sotto un albero di ulivo. Quell’inverno era morta una loro cognata, Giuseppina, moglie di un terzo fratello, Carlo. Il vedovo era rimasto solo con dieci figli, ormai grandi. Una famiglia numerosa che si voleva bene. L’uomo era annichilito, Giuseppina era una donna semplice ma amava tenere in ordine e pulita la sua casa, usava il poco olio che c’era per lucidare i mobili e le filagne della capanna dove tenevano la cucina. Era stata bellissima, alta, slanciata, i capelli neri, gli aveva dato otto “scapigliatelle” (così chiamava le figlie) che si sposavano una a una e lasciavano la casa sempre più vuota. Nonostante il grave lutto Marisa e il fidanzato volevano sposarsi: “Za Lidi’, tu che pinzi, ca madrema riuiue se i’ nu me assoro? Anzi essa saria condenta”, Menica: “Figlia bona mea, madreta saria puro condenta ma che diciarà la gente, ca te deui sposà perchè si combinato ca guaio?” e Lidia: “T’è raggione za Menica, se te sposi mo’ è uirgogna! Aspetta almeno ‘n anno!”
Ma gli sposi non sentirono ragioni. Carlo dette il denaro alle due cognate perché facessero le veci di Giuseppina, per il pranzo in casa, per gli acquisti, per la sarta. Le due cognate con due cesti pieni di biancheria in bilico sulla testa si misero dunque in cammino per Borgo Montenero verso il podere dove sarebbero andati a vivere gli sposi insieme alla grande famiglia di lui. Scesero lungo i sentieri sbrecciati, bianchi, in mezzo alla polvere e alle fratte. Si fermavano solo pochi attimi, per bere. Arrivarono al podere che era pomeriggio inoltrato. La mamma dello sposo le aspettava sulla strada, le accolse col sorriso, si lavarono alla fontana nel giardino la faccia, le braccia, i piedi e le gambe coperte di polvere. Si passarono il pettine con l’acqua sui capelli e si rifecero la crocchia. La buona donna era veneta e a volte i dialetti diventavano incomprensibili per l’una e le altre. Aggiustavano col sorriso, i gesti, le carezze. C’era da mangiare per tutta la numerosa famiglia che accolse le susarole con gentilezza, cenarono che era ancora giorno, per tutti era stata una dura giornata di lavoro e così sarebbe stato l’indomani. Dopo cena andarono a dormire tutti, sfiniti.
Il mattino dopo di buon’ora, Lidia e Menica si misero al lavoro, spazzarono, spolverarono, lavarono i pavimenti e i mobili della camera da letto degli sposi, sistemarono la biancheria nei cassetti e infine prepararono il letto nuziale con le lenzuola di lino con le iniziali che la sposa stessa aveva ricamato, dopo aver imparato dalle buone suore di Santa Maria: M.M.
Ripartirono con le ceste vuote che erano appena le dieci, più leggere ma stavolta in salita. Arrivarono a casa che era sera. Stavolta si misero a letto senza cena, esauste.
La domenica seguente le due cognate attesero al pranzo, sistemarono i tavoli nel cortile del padre della sposa, le tovaglie bianche, i piatti rosa coi tulipani di Lidia, i bicchieri e le forchette prestati da tutto il vicinato. Nonostante le difficoltà fu un giorno di festa, quando finì la sposa abbracciò il padre, le zie, le sorelle e seguì lo sposo a Borgo Montenero.
Poco tempo dopo però gli sposi salutarono le famiglie e si trasferirono a Torino perché Umberto era stato assunto come operaio alla Fiat. Da quel momento “sparirono”, non scrissero, non telefonarono, non tornarono. Abitavano a Nichelino, ebbero due figli: le notizie, poche, arrivavano da un collega compaesano che li conosceva e raccontava qualcosa a Carlo quando tornava al paese d’estate. Umberto morì che era ancor giovane. Ebbero la pensione e uno dei figli prese il suo posto in fabbrica. Per il resto silenzio assoluto.
Passarono venticinque anni in un soffio e una sorella di Marisa, Silvana, decise di andare a Nichelino. Preparò una valigia piena di pane, carciofi, crostatine di visciola, un prosciutto intero, un fiasco d’olio e uno di vino e partì approfittando di una gita parrocchiale a Torino. Si fece lasciare proprio sotto casa della sorella, un palazzo alto alto. Il portiere la fermò e la fece parlare al citofono: “Ma che è so’ citolofono, giuvano’? Ma se paga?”, ”Ma no, è come un telefono ma non si paga niente!”
“Marisa! So’ i’, so’ Silvana, soreta. Te uoglio abbraccià!” “Torna sui tuoi passi e lasciami in pace, non voglio vedere nessuno.” “Ma perché? Che te semo fatto? C’ha suceso?” Nessuno rispose. Silvana lasciò una mancia al portiere perché portasse la borsa alla sorella. Poi si asciugò le lacrime e tornò al punto di raduno dove il pullman la aspettava. Ancora oggi le “scapigliatelle” vivono nella speranza di ritrovarsi o almeno di svelare il mistero degli sposi.