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Senza manco dire ciao

by Lucia Fusco

Roma, Giugno 1956

Bruno strillò: “Aho, a Umbe’, e che te se sei abbioccato! ‘Sto sole coce e te fa dormì! Anvedi che ce sta ‘n mezzo all’acqua!” “E’ ‘na valiggia! Pijamola. Sbrighete, Bruno! Cercamo ‘n bastone, ‘na canna,  sinnò la corente se la riacchiappa e se la porta via” I due ragazzini si tolsero le camicie e a torso nudo si avvicinarono alla riva. La corrente lenta ma potente del Tevere aveva portato sotto i loro occhi una valigia. Aiutandosi con una canna la avvicinarono più che poterono e la issarono fuori stando attenti a non cadere in acqua. Altrimenti che cos’avrebbero potuto raccontare a casa? Che avevano fatto ancora sega a scuola? Erano cugini, figli di susaroli, ormai romani di borgata. Andavano a scuola al Ferrante, al quartiere Tor di Quinto, alla scuola media con avviamento in Agraria. A loro piacevano le lezioni all’aperto, agli orti, effettuare gli innesti, si recavano a piedi col prof. di Agraria verso la campagna dei Due Ponti, volevano bene al professore bonario in mezzo al verde, liberi, lo ascoltavano e da lui imparavano volentieri. Alle sue lezioni non mancavano mai. Invece stare in classe era poco gradito ad entrambi e facevano spesso sega: studiare in quegli ultimi giorni di scuola, stare chiusi dentro un’aula era una noia mortale e un tormento. All’ultima campanella, invece di entrare in classe, si allontanarono, in fuga verso Ponte Milvio dove sembrava loro “di andare all’estero”. “A Bruno, nun ce lo sai che qua a Ponte Mollo c’hanno combattuto pure l’antichi romani!” “Sì vabbe,’ mo puro Garibbardi!”  Scendendo verso il fiume i due ragazzetti si sfottevano occhieggiando le compagne ritardatarie: “Aho, Rossella, tu non c’hai visto!” “Ma chi ve vole, ma chi ve penza!” “Ah mora, chi disprezza compra!” La piazza di Ponte Milvio era poco urbanizzata, c’era la campagna, la strada che conduceva alla via Cassia era incoronata da alberi fruscianti vita, c’era il mercato, sulle bancarelle pesce e frutta, verdure e ogni ben di Dio, i mercatari strillavano sguaiati cercando di attirare l’attenzione delle massaie, loro stavano attenti a non incontrare le madri. Rimediarono una mela e arrivarono sul ponte Mollo. Là tra le erbe alte si tolsero i giubbotti, buttarono senza troppa attenzione per terra i libri e si distesero “come due lumaconi”, masticando fiori. Là erano al sicuro, nessuno avrebbe scoperto l’ennesima fuga scolastica. Quando furono stanchi di ridere e di giocare alla lotta si addormentarono. Le rive erano naturali, piccole zone prataiole in mezzo a cespugli e fratte, intorno un deserto. Roma era la città di più bella del mondo, non faceva mai troppo freddo, anche se a febbraio c’erano state quattro nevicate bellissime; ora però il sole accarezzava i due giovani “bigiaschi” scaldandoli. “Che avventura! Nun è tanto pesante, chissà che me credevo. Che ce starà drento!” L’altro fece spallucce: ”Magari è piena de stracci!” Era una valigia nera con la cerniera dorata. Si aprì con uno scatto. Il sole entrò dentro veloce, prima del loro sguardo, e fece brillare il suo contenuto, tanto che dovettero portare il braccio davanti agli occhi. “Aho, artro che stracci!” Foderata di velluto rosso e imbottita seguiva le forme di un sassofono. Il sorriso affiorò sui due bei volti ragazzini: “Ammappela, è d’oro! Ammazza quanto brilla!” “Ma no, a matto, è d’ottone! E’ novo, non c’ha manco un graffio!” “Chissà chi l’ha perzo… come je successo, poraccio!” “Nun lo sapremo mmai, magari ‘n furto, ‘n dispetto, chi ‘o po’ sape’? Giocamoce, sonamolo noi!” Cominciarono a suonare ragli e muggiti. Si divertirono a pigiare i tasti e a soffiare dentro a turno. L’oggetto luccicava come fosse magico. Arrivò l’ora di tornare, si rivestirono e risalirono le sponde. Raggiunsero la fermata “dell’autino”, il 101 che da Ponte Milvio li avrebbe riportati vicino casa. Attesero dieci minuti, il tram era pieno, Bruno dal marciapiedi riconobbe il padre sull’autobus: “Fermate Umberto, nun salì che ce sta mi’ padre sopra all’autobus!” Tornarono a piedi. Arrivati ormai vicino casa si resero conto che non potevano portare con loro lo strumento, entrambi avrebbero dovuto dare spiegazioni, rispondere a chissà quante e quali domande, dire bugie su bugie. “Senti, nasconnemolo. Lassamolo drento ‘na siepe der parchetto tra via Antonio Serra e via Leprignano, annamo a magnà tranquilli com’ar solito, poi oggi pomeriggio ce scennemo a gioca’ n’artra vorta.” “Vabbe’ penzamo a ‘na scusa ‘ntanto pe’ potesselo porta’ su a casa, se scoprono che avemo fatto ancora sega ansai le botte che ripjamo?” “Avoja! A me me fa ancora male ‘a capoccia pe’ li sganassoni che m’ha dato mi’ padre quanno m’ha scoperto l’urtima vorta!” “Pure er mio nun scherza. Allora ciao. Se rivedemo qua alle quattro!” Ingenuità e delusione vanno a spasso con il tempo del nascondino: “Aho, nun ce sta più. Er sassofono mica se n’è annato da solo, senza manco saluta’, senza manco dice ciao!” “Mannaggia! Efforse l’avemo strapazzato troppo!”

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