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Marmellata di pomodori

by Lucia Fusco

Anni Cinquanta –Il susarolo Peppe Defrolla era un contadino, viveva in una grande stanza di un vecchio casaletto di famiglia all’Armitorio, con la moglie Armida, la suocera, due figlie giovinette, Iolanda e Geltrude, il figlio Righetto ancora ragazzino. Una famiglia semplice, felice a suo modo, lavoratrice e onesta. Peppe era famoso nel vicinato per i suoi gustosi pomodori, le terre alla Catena, grazie pure all’abbondanza e alle virtù delle “acque puzze” che là sorgevano, rendevano meraviglioso tutto quel che piantava, di prima qualità; nonostante l’abbondanza del lavoro l’agricoltura non dava certo la ricchezza ma lasciava vivere dignitosamente la famigliola. Le figliole promosse dalla quinta elementare avevano smesso di studiare, aiutavano nelle faccende muliebri e seguivano spesso il padre in campagna. Armida, di solito bianca e rossa, si ammalò e dovette essere ricoverata all’ospedale di Sezze per subire un intervento chirurgico. La degenza fu lunga e così le cure, all’epoca in ospedale si pagava tutto, anche le medicine, e il povero Peppe, per scontare un po’ il grosso debito, propose a suor Giacomina, caposala del reparto chirurgia, un carretto di pomodori di prima qualità per il vitto degli ammalati e dei lavoratori. La suora accettò con entusiasmo e generosità ma gli impose di portare il carico il giorno dopo stesso. Affidarono Righetto alla nonna perché non perdesse la scuola e la mattina seguente alle tre, Peppe insieme alle figlie scese con cavallo e carretto alla Catena. Partirono da casa e arrivarono sulle terre che era ancora buio. Lavorarono alacremente per lunghe ore, scegliendo i pomodori migliori uno per uno, senza un attimo di riposo, fermandosi solo per bere, sistemarono i vegetali con cura nelle ceste e caricarono per bene il carretto. La salita fu lenta e difficoltosa, anche il cavallo fece il suo dovere e arrivarono all’ospedale che imbruniva. Suor Giacomina era seccata del ritardo. Peppe e le figliole, esausti, quasi digiuni, cominciarono a scaricare con attenzione le ceste piene dei pomodori, sistemandole in un magazzino vicino alle cucine. La suora, dopo un rapido sguardo alla merce, cominciò a brontolare: era stanca, era tardi, la gente gli dai un dito e si prende tutto il braccio, non era più l’ora e via dicendo e, notato un pomodoro rovinato, borbottò, non curando di essere udita: “Io, a questo villano, gli farei marmellata in faccia di questi pomodori!” L’anziana suora mai avrebbe pensato che Peppe avesse un udito tanto fine e una bocca tanto grande… lui e le ragazze smisero di scaricare le ultime ceste e Peppe ad alta voce ribattè: “ Suor Giacomina! Tu me li sbatteresti in faccia questi bei pomodori, io invece te li sbatterei tutti in c…, uno a uno.” Apriti Cielo! Successe la fine del mondo! Un’eclissi totale: la santa donna cominciò a urlare come se l’avessero aggredita, gli strilli si sentirono fino all’ultimo piano dell’ospedale, arrivarono i portantini, gli infermieri, i medici di turno, qualcuno chiamò i carabinieri che accorsero in un lampo e ci misero un po’ per fermare quel parapiglia di urla e male parole. Peppe dovette scusarsi pubblicamente con la cenere sul capo, le figlie finirono di scaricare in silenzio tutti i pomodori dal carretto e dovettero sbrigarsi ad allontanarsi per non essere picchiati dai paesani accorsi a difendere la religiosa. Tornarono a casa a notte con la coda tra le gambe. Armida rimasta in ospedale piangeva di vergogna e di dispiacere colla faccia sotto il lenzuolo. I vicini e i parenti il mattino dopo sapevano già tutto, nonostante non esistessero i social network e le linee telefoniche fossero quasi inesistenti, andarono di buonora a chiedere a Peppe perché non se ne era restato zitto, perché si era permesso di rispondere a tono a quella santa donna che ogni giorno si occupava dei malati, dei visitatori, delle persone che lavoravano all’ospedale: “Ohio Peppe, nun te le poteui sturza’ ‘sse parole che s’ì ditto a chella pora monaca?” Peppe spiegò che era stato zitto a lungo, aveva resistito ma aveva risposto quando s’era fatto: “gunfio accomm’ a ’na otta”, la monaca era: “na bella cica ca lo steua a sdellenza’” e lui non ce l’aveva fatta più a tacere, le parole gli erano uscite sole di bocca, proprio come l’acqua della sorgente alla catena, potente e “puzza”, lui non aveva saputo fermarsi. Dopo ripetute, pubbliche scuse, suor Giacomina lo perdonò, era persona schietta, buona di cuore e, dopotutto, ammise che anche lei aveva provocato lo sfogo del povero contadino con i suoi mugugni; Armida finalmente fu dimessa e Peppe pagò il conto dell’ospedale senza discutere. Poco tempo dopo la famiglia di Peppe lasciò Suso, si trasferì in Canada e da allora non si trovano più pomodori tanto gustosi e belli.

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