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Nei secoli fedeli

by Lucia Fusco

1936 – Alberto era bello, ventunenneallievo carabiniere, gagliardo nella divisa nera e rossa, scarpe lucide, capelli folti e neri, fisico asciutto e slanciato; fucolpito da colpo di fulmine quando conobbela bellissima Diletta, quasi quindicenne, lei e la sorella Egle non avevano il permesso di truccarsi e si davano i pizzicotti su guance e labbra per farsi più belle, ondulavano i lunghi capelli castani col ferro caldo. Conosciuti nella cricca di Marco, il fratello maggiore di Diletta, in poco tempo si fidanzarono in casa. Figli di un macchinista ferroviere, Marco lavorava nella fabbrica della Birra Peroni ma perse il lavoro pochi anni dopo perchécomunista, dopo una manifestazione di piazza; ma era sempre di buonumore, scherzava e teneva allegri tutti,era l’equilibrista di casa, facevacapriole sul tavolo e sulle sedie. Si sposarono due anni dopo e restarono in famiglia. Erano felici, lei aspettava un figlio quando Alberto fu mandato in missione in Africa Orientale dove, raccontò, una volta tornato, aveva mangiato “soltanto banane per oltre un anno”, perché non c’era altro e non volle mai raccontare di più. Prima di partire: “Mi raccomando, Diletta, se il bambino sarà maschio lo iscriverai all’Anagrafe col nome di Giuseppe ché è il nome di mio padre, ci tengo particolarmente a rinnovare il nome.” Nacque un maschietto, lo zio Marco lo iscrisse all’Anagrafe col nome Francesco, gli piaceva di più e volle fare uno “scherzetto” al cognato.Diletta glielo scrisse ma Alberto: “Vai subito all’Anagrafe e correggi. Francesco sarà pure un bel nome,ma mio figlio non può chiamarsi altro che Giuseppe, come mio padre, altrimenti è tutto finito tra noi!” Tornò dalla guerra, ma l’allegria era finita, furono anni tristi, di guerra, di fame, di paura;Alberto era spesso assente, sempre in servizio tra occupazioni, bombardamenti, incarichi, tornava a casa solo per lavarsi e riposare.Quando le sirene urlavano Diletta correva al rifugio col piccolo Giuseppe in collo mentre Marco portava in braccio il nipote Franco, di due anni, figlio di Egle. Tutti correvano con le braccia impicciate, chi con una coperta, chi con un fiasco d’acqua, chi con il pane, chi aveva il compito di salvare i pochi beni della famiglia. A guerra finitala famigliolafu destinata a un paesino sardo della Barbagia:povero, arroccato, romantico, tra i boschi profumati di mirto e sughero, ma la gente era diffidente, chiusa, inospitale verso lo straniero, figurarsi verso chi indossava una divisa;qui Giuseppe fece la prima elementare enacque Lella, un anno dopo furono trasferiti in un paesino di mare,a nord di Roma; finalmente approdarono a Sezze, il paese della Cornucopia, dove Lella cominciò le elementari e nacque Paolo. Diletta era affettuosa, di buon carattere, si fece amare dalle vicine, si chiamavano per le scale e tra i vicoli: “Sora Diletta, azzecca a casemaca so’ fatta ‘na cuccuma de caffe e ci itullemo ‘nzeme”, al fresco sulle sedioline di paglia, al parco sotto gli occhi del soldato caduto,ricamavano le lenzuola per le figlie signorine. Stagioni e anni semplici, di sacrifici fatti di onestà. Quando Diletta sentiva la nostalgia di Roma e della sua famigliad’origine con Lella partiva in treno, si caricavano di borse: pane, vino, pasta, carni, carciofi, broccoletti, insalate, dolcetti. Era una festa. La sera tornavano con le borse vuote ma il cuore pieno di affetto familiare. Il tempo fugge in un battito di ciglia. Paolo studiava alle medie mentre Giuseppe, seguendo il desiderio dei genitori, si iscrisse alla facoltà di Medicina a Roma. Erano fieri dei sacrifici, tanto da acquistare libri che costavano quanto lo stipendio intero di Alberto. Giuseppe era buono, serio, intelligente, amava gli sport, imparò a suonare la chitarra e il mandolino da autodidatta.A casa i bocconi migliori erano per lui che aveva bisogno di energie per diventare dottore, lui ne era dispiaciuto ma gli altri ne erano contenti, si sentivano orgogliosi dei suoi studi. Lella si sposò e tornò a Roma, Giuseppe diventò medico col massimo dei voti e si sposò contemporaneamente al fratello minore. Nacquero molti nipoti. Diletta e Alberto erano soddisfatti, lui era appena andato in pensione, sognavano il viaggio di nozze che non avevano potuto fare, un tempo tranquillo di benessere per raccogliere i loro buoni frutti.Ma la felicità non è di questo mondo e un brutto male si portò via Diletta a soli cinquantacinque anni, lei l’affrontò sorridendo, cantando, benedicendo e raccomandando sempre comprensione e pacein famiglia. “Nei secoli fedele”, Alberto rimase vicino ai figli e ai nipoti con lo spirito di servizio e devozione che ha contraddistinto tutta la sua vita: “Io amo l’Arma, non posso rimproverare niente al mio lavoro. L’Arma dei Carabinieri mi ha dato la vita, il pane, la divisa che ho indossato con amore mi ha dato la dignità”.

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