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Storiacce e Pozzaghe

by Lucia Fusco

Suso 1948- Rocco, lavoratore minuto ma forte, a soli cinquant’anni era rimasto vedovo, solo Vittorio, l’ultimo figlio, viveva ancora nel casaletto con lui. Aveva dato alla moglie sei figli, un matrimonio terribile, di fatica e violenza, così Santina diceva alle figlie: “Gl’omo è omo! Puzza, fatìa, mena bbotte e ‘nghiastema”. Vittorio era tornato dalla guerra “infelice”, paura e orrore, cure aggressive e dolorose lo avevano reso pazzo, il vino lo stordiva e dimenticava il conflitto bellico, dormiva e acquietava i fantasmi. Rocco invece quando beveva diventava violento e prepotente, picchiava i familiari senza ragione; mostrandosi generoso e simpatico cercava di nascondere la sua brutta natura con i vicini, ma l’infelicità della povera moglie e dei figli era visibile a tutti. Una sera tornò a casa dopo l’osteria e trovando solamente Vittorio addormentato lo svegliò sparando in casa col fucile. Il figlio spaventato fuggì in strada dove gli amici d’osteria del padre, impauriti e preoccupati per i
colpi, si erano fermati: “Ha stato padremo! Mbe’, dite ca so’ scemo i’? E’ isso ca è matto in tutto e ‘u nun ve n’accorgete!” I tempi grami, le tasche vuote non permettevano spesso il lusso dell’osteria, Rocco e gli amici di bevute si riunivano nelle capanne per il vino prodotto da essi stessi, spesso digiuni. Una sera, ubriaco, nella capanna di Luigi mostrò il coltello e questi, all’armato dalla toppa e per quel che poteva accadere, chiese al terzo amico, Michele, di terminare subito la serata e accompagnare a casa l’ubriaco. Michele non lo temeva, era un omone alto un metro e novanta, un marcantonio con la forza di un bue. Arrivati al casaletto di Rocco mentre si salutavano, questi provò a menare un colpo di coltello al fianco di Michele, senza motivo. L’omone, già sulla difensiva, schivò la botta e vibrò violenti schiaffi e pugni. Cadde il coltello, continuò a picchiare: ogni cazzotto sangue. Rocco non chiese scusa ne’ pietà, disse: “Si’ toccato la coda alla uipera!”, intendeva che era pronto ad attaccare e vincere, ma non poté reagire per il vino e le troppe botte e cadde “morto”. Michele, impaurito e imbufalito se lo caricò sulle spalle come un capretto e cominciò il giro dei pozzi per disfarsi del cadavere. I pozzi erano chiusi con un catenaccio, cosicché esausto, all’alba lo gettò in una “pozzaga”, una buca profonda, stretta, piena di acqua piovana vicino casa di Rocco. A contatto con l’acqua gelida il morto riprese conoscenza. Non sapeva nuotare e si appese alle radici delle piante intorno a quel buco nero. Rabbrividiva dalla febbre e non aveva le forze per uscire ma resistette. Al risveglio Vittorio sentì i lamenti, lo cercò, chiamò i vicini perché lo aiutassero, era irriconoscibile, gonfio, sanguinante, tumefatto. Lo portarono col carretto all’ospedale di Sezze senza conoscenza, rimase molti giorni tra la vita e la morte, in coma. Vittorio raccontò ai carabinieri che il padre era stato a casa del vicino Luigi a bere. Questi spiegò che era stato Michele ad accompagnare a casa Rocco ubriaco. Forse a causa del vino avevano perso la strada al buio, era caduto… Ma le ferite, i colpi, i lividi, il sangue, il coma raccontavano un’altra storia. Michele, dopo “l’omicidio” non era tornato a casa per non mostrare la sua agitazione ai familiari e si recò direttamente al lavoro alla cava di sassi al Brivolco dove spaccava le pietre dal mattino alla sera per pochi bocchi. Dopo una giornata di lavoro, tornò a casa trascinando i piedi, trovò i carabinieri ad attenderlo fuori dalla sua capanna. Michele ‘mbrugliava: “Bu-bu-buonasera!” “Buonasera, lei è Michele P:?” “Si, so- songo i.” “Lei è in arresto, deve seguirci in caserma”. “Ma i’ n’ so’ fa- fa -fatto gne- gnente!” Ma la parte posteriore della camicia era imbrattata di sangue e non aveva ferite, Michele se ne stupì, non si era reso conto di aver portato sulle sue spalle Rocco sanguinante. Non poté mentire ai carabinieri e fu arrestato. Molti giorni dopo quando Rocco uscì dal coma raccontò i fatti. Il giudice non concesse le attenuanti per legittima difesa: “Michele P. non dovevi reagire, dovevi denunciarlo! L’hai quasi ammazzato! Rocco M. è’ vivo per miracolo!”. E così Michele fu condannato a diversi anni in prigione all’Asinara, dove catturava gli asini selvatici che mordevano le mani e calciavano. Quando il susarolo tornò dalla prigionia, alla fine degli Anni Cinquanta, molte cose erano cambiate, la zona era migliorata, molte capanne era diventate scendì: “Mi mi so’ a -aggianato! N’ riconosceua più i paeso! N’ trouauo più la po-porta di ca-casema!”. Rocco e Vittorio intanto si erano trasferiti a Roma da parenti e non si rividero mai più con Michele, ne’ per fare pace, ne’ per scusarsi, per spiegarsi, neppure per una bestemmia o per un bicchiere di vino. Padre e figlio avevano il divieto assoluto di bere ed ogni giorno era una lotta per tutta la famiglia controllare che non si ubriacassero, anche una goccia di alcool era un pericolo, per se’ stessi e per gli altri.

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